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Ecco il progetto per aiutare le vittime

Il 25 novembre si celebra la Giornata Mondiale contro la Violenza sulla Donne. Per offrire alle vittime un aiuto concreto, Biodermogenesi®, la metodologia coperta da brevetto internazionale per la rigenerazione tissutale, con i suoi centri d’eccellenza sull’intero territorio nazionale, rinnova il progetto RigeneraDerma, presentato lo scorso aprile alla Camera dei Deputati, e offre a 500 persone che non possono permetterselo, la cura per le cicatrici.

Testimonial del progetto RigeneraDerma è Filomena Lamberti, la donna salernitana cui, nel 2012, l’ex marito nella notte versò dell’acido su testa, volto, mani e décolleté. A 10 anni di distanza da quel tragico episodio, finalmente la donna sta via via riacquistando la sensibilità dei tessuti. Tanto da riuscire a “sentire nuovamente il vento sul volto”, come lei stessa ha dichiarato. Merito del percorso di terapia con metodologia Biodermogenesi®.

«L’aggressione con acido, conosciuta anche come “vitriolage” è una forma di violenza premeditata che consiste nel gettare una sostanza corrosiva sul corpo di un’altra persona con l’intento di sfigurarla, mutilarla, torturarla o ucciderla. La gravità del danno dipende sia dalla concentrazione della sostanza corrosiva utilizzata che dal tempo in cui essa rimane a contatto con i tessuti. Il comune denominatore degli aggressori è il desiderio di colpire la faccia. Contro la povera signora Lamberti è stato usato l’acido solforico uno degli agenti più aggressivi: ha ricevuto danni gravissimi alle palpebre, labbra, naso, orecchie. La signora ha dovuto subire numerosi interventi di chirurgia plastica che non sono riuscite a restituirle completamente ne l’aspetto né la funzione», spiega il Dottor Bruno Brunetti, Specialista in Dermatologia e Malattie sessualmente trasmissibili e titolare del Centro dermatologico Brunetti di Salerno.

«La metodologia Biodermogenesi® è in grado di recuperare la funzionalità del microcircolo cutaneo, migliorando la qualità della matrice extracellulare e moltiplicando la produzione di collagene e fibre elastiche in tutte le alterazioni cutanee, in particolare sulle cicatrici. Ho trattato le cicatrici della signora Lamberti causate da acido solforico, con 12 sedute Biodermogenesi®», sottolinea la Dottoressa Anna Maria Minichino, Medico Chirurgo e Responsabile dermoestetico del Centro dermatologico Brunetti di Salerno.

«Seduta dopo seduta ho notato un livellamento delle cicatrici che reso la pelle più liscia, compatta ed uniforme; le rughe si sono attenuate ed anche il diverso colore delle cicatrici si è presentato sempre più simile a quello della pelle sana. Alla palpazione di volto e collo effettuata dopo i trattamenti i cordoni cicatriziali presenti sono notevolmente migliorati, divenendo più morbidi ed elastici permettendo alla paziente di poter finalmente inclinare e ruotare la testa senza limitazioni e dolore. L’aspetto professionale per me più gratificante nel dedicarmi alla signora Lamberti è stato quello di averle migliorato la qualità della vita, grazie ad un importante miglioramento delle sue cicatrici, sia funzionale con il recupero della sensibilità delle pelle del volto, che estetico, dando sollievo e speranza ad una paziente così emotivamente provata», continua la Dottoressa Minichino.

«Le cicatrici al volto sono un problema grave in medicina, perché creano conseguenze sulla psiche dell’individuo, alterano l’immagine del sé e diminuiscono la qualità della vita in modo significativo. Oggi abbiamo degli approcci terapeutici sicuramente efficaci, ma occorre sviluppare sempre più le terapie non invasive, in grado di agire in modo sicuro e con una documentata efficacia. Le terapie non invasive sono particolarmente importanti perché possono essere utilizzate più facilmente anche nelle fasce più svantaggiate della popolazione. Proprio per questo hanno un elevato impatto sociale», sottolinea il Professor Andrea Sbarbati, Professore Ordinario dell’Università di Verona.

Oltre alle donne vittime di violenza, il progetto è aperto anche a persone di entrambi i sessi, economicamente svantaggiate. Per tutti, le terapie saranno erogate interamente pro-bono con il medical device Bi-one® LifeTouchTherapy presso i Center of Therapeutic Excellence Biodermogenesi® (CTE) che aderiranno all’iniziativa.

Ogni anno, nei soli Paesi sviluppati vi sono mediamente 100 milioni di persone con nuove cicatrici che riguardano sia il corpo che il volto. Di queste, 55 milioni sono legate ad esiti post-chirurgici elettivi, mentre 25 milioni sono dovute ad interventi chirurgici post-traumatici, i restanti 20 sono di diversa natura. Parlando nello specifico del volto vi sono, inoltre, cicatrici derivanti da trauma, per le quali non si può quantificare il numero annuo, sebbene probabilmente sia più elevato rispetto a quelle chirurgiche.

Allo stato dell’arte non si è affermata una tecnologia che si possa definire universalmente efficace nella terapia delle cicatrici e questo ci ha portati a valutare la sinergia tra campi elettromagnetici e vuoto, anche di conseguenza ad esperienze maturate da Nicoletti e coll. della Cattedra di Chirurgia Plastica dell’Università di Pavia e da Veronese e coll. del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Verona, che hanno ottenuto significativi esiti su cicatrici di ogni genere, comprese quelle lacero-contuse, da trauma e da ustione su collo e volto.

L’esperienza Biodermogenesi® relativa a 25 pazienti gravati da cicatrici da trauma, ustione, da taglio e post-chirurgiche, ha permesso di constatare un importante miglioramento delle cicatrici trattate, sia per quanto riguarda la trama cutanea che per la discromia, ottenendo in alcuni casi anche l’abbronzatura della cicatrice. Da tale esperienza sono derivate un articolo scientifico recentemente pubblicato e il presente progetto RigeneraDerma.

Fonte: askanews.it

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Importante risultato raggiunto da una Rete di ricerca Italiana

Uno studio multicentrico italiano ha permesso di individuare alcuni dei meccanismi patologici coinvolti nel malfunzionamento delle cellule nella Sindrome di Smith-Magenis (SMS), una rara e, allo stesso tempo, complessa patologia genetica che colpisce, a più livelli, lo sviluppo del bambino. La ricerca è stata condotta nell’IRCCS Fondazione Casa Sollievo della Sofferenza, da un team tutto italiano, coordinato dalla Dott.ssa Jessica Rosati sotto la supervisione del Prof. Angelo Luigi Vescovi, in collaborazione con il gruppo di ricerca della Prof.ssa Maria Pennuto dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare VIMM, la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e l’Istituto Neurologico Carlo Besta IRCCS, due dei maggiori centri clinici di cura per i bambini affetti dalla Sindrome di Smith-Magenis.

Il lavoro dal titolo “Retinoic acid-induced 1 gene haploinsufficiency alters lipid metabolism and causes autophagy defects in Smith-Magenis syndrome” è stato pubblicato sulla Rivista scientifica “Cell Death and Disease”. La Sindrome di Smith-Magenis (SMS) è una malattia genetica rara, causata nel 90% dei casi da una delezione nel braccio corto del cromosoma 17 (17p11.2), e nel restante 10% da mutazioni puntiformi nel gene RAI1. I bambini con questa sindrome presentano significativi deficit neuro-cognitivi, dismorfismi craniofacciali, obesità, disturbi del sonno e del comportamento. La prevalenza mondiale è di 1/15.000-25.000 in tutti i gruppi etnici, ma è molto probabile che vi sia una sottostima nelle diagnosi.La ricerca in questione costituisce una pietra miliare nello studio di questa patologia perché, sino ad oggi, questa Sindrome è stata prevalentemente studiata solo da un punto di vista clinico.Dal 1986, anno in cui venne diagnosticata per la prima volta, non sono state sviluppate terapie efficaci per la cura.

Il progetto ha avuto inizio cinque anni fa con il prelievo di cellule da un primo paziente; successivamente, grazie all’aiuto fondamentale dell’Associazione Smith Magenis Italia, che ha sensibilizzato le famiglie coinvolte rispetto all’importanza della ricerca scientifica, è stato possibile ottenere e indagare un numero consistente di linee paziente-specifiche. Queste linee cellulari, sono state essenziali per dimostrare che esistono alcuni processi deregolati all’interno della cellula, comuni a tutti i pazienti, al di là della variabilità genomica e sintomatologica di ciascuno di loro. In particolare, nelle cellule dei bambini con Sindrome di Smith-Magenis (SMS), è emerso come si accumulino i trigliceridi, sotto forma di gocce lipidiche, a causa di una deregolazione del processo di smaltimento dei rifiuti cellulari. Questo blocco del processo di smaltimento provoca una sofferenza nella cellula, con un accumulo di radicali liberi che porta alla morte cellulare.

“Una volta individuato questo meccanismo, siamo riusciti a migliorare con un farmaco il fenotipo patologico nelle cellule agendo sull’accumulo dei trigliceridi e dei radicali liberi e ottenendo un miglioramento della vitalità cellulare, questo andando proprio ad agire sul meccanismo biochimico inficiato dalla mutazione genetica”, spiega Angelo Vescovi, Direttore Scientifico dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza e Coordinatore del Progetto.

I risultati di questo studio identificano per la prima volta i processi patologici che avvengono nelle cellule dei pazienti con Sindrome di Smith-Magenis (SMS) e che rappresentano bersagli terapeutici per una futura terapia sperimentale. Esperimenti sono in corso per traslare queste scoperte in una sperimentazione clinica nel più breve tempo possibile.

Fonte: askanews.it

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"Sindrome del lenzuolo", sofferenza maschile ancora tabù

“Stasera non me la sento”: sembra una scusa prettamente femminile per non fare sesso, invece, può essere il segnale di un dolore fisico o psichico associato all’attività sessuale, che colpisce anche gli uomini, di cui però si parla poco perché i maschi tendono a mascherare questa sofferenza e sono restii a consultare lo specialista. Di fronte al dolore, quindi, gli uomini sono davvero il sesso debole, incapaci di dirlo e con una forza reattiva inferiore a quella delle donne. La differenza è evidente nella sfera andrologica, dove il dolore fisico si intreccia con quello psichico e viceversa. Molto spesso i due tipi di dolore sono come un circuito vizioso che si autoalimenta: il dolore fisico, come ad esempio nel dolore pelvico cronico, genera sofferenza psicologica, con ricadute che possono spingere l’uomo fino a evitare il rapporto sessuale. Così anche per il dolore psicologico come quello per la perdita della potenza sessuale che ne favorisce lo sviluppo con una riduzione dei rapporti.

A sollevare per la prima volta il velo in cui è avvolta la sofferenza maschile, sono gli esperti della Società Italiana di Andrologia (SIA) nella terza edizione del Congresso Natura, Ambiente, Alimentazione e Uomo (NAU). Secondo gli specialisti la “sindrome del lenzuolo” colpisce 4 milioni di uomini che, in due casi su 10, rinunciano al sesso per dolore fisico e psichico. L’obiettivo degli andrologi SIA è dunque quello di proporre un cambio di paradigma nella cultura del dolore a cui troppo spesso si dà una valenza esclusivamente femminile.

“Il dolore causato da un problema andrologico può avere un impatto ingente sul benessere sessuale, individuale e di coppia – spiega Alessandro Palmieri, presidente SIA e docente di Urologia all’università Federico II di Napoli -. Sebbene sia gli uomini che le donne considerino un’appagante attività sessuale essenziale per il mantenimento della relazione, gli uomini tendono però a enfatizzare l’importanza del sesso come emblema di mascolinità e di successo. Proprio per la rilevanza attribuita all’attività sessuale – precisa Palmieri – tendono a sottacere il dolore che alla fine li porta a evitare il rapporto sessuale vero e proprio, avviando un circolo vizioso dannoso per la coppia e per l’uomo stesso”. “Negli ultimi anni la sofferenza maschile è aumentata notevolmente – dice Ciro Basile Fasolo, presidente del congresso NAU e autore del libro “Homo Patiens” dedicato al dolore nell’uomo – recenti dati epidemiologici hanno evidenziato come un maschio su tre sia affetto da patologie uro-andrologiche che possono interessare l’intero arco della vita: dall’adolescenza fino all’età avanzata. Il riconoscimento tempestivo di alcuni sintomi permette di trattare patologie quali l’ipogonadismo, la disfunzione erettile, l’eiaculazione precoce, l’infertilità, le patologie prostatiche su base infiammatoria o infettiva, che non di rado possono essere sottovalutate o addirittura misconosciute”. “Va poi tenuta in considerazione la bidirezionalità della correlazione tra dolore fisico e dolore psichico – aggiunge Palmieri – infatti il dolore corporeo come nel caso della sindrome pelvica, della prostatite cronica o del cancro alla prostata, può innescare uno stato ansioso in grado di aggravare l’impatto della patologia sulla sfera sessuale. Ma anche il dolore psichico non secondario a una patologia organica, come quello che accompagna l’infertilità maschile o le disfunzioni sessuali può avere ripercussioni di avversione sessuale fino alla rinuncia totale dei rapporti”. Le prostatiti rappresentano oggi una delle patologie più frequenti, in particolare, la prostatite cronica o sindrome del dolore pelvico cronico interessa il 10-15% della popolazione maschile e può insorgere negli uomini di qualunque età. “Ci sono diversi tipi di trattamento che consentono di gestire questa patologia – spiega Palmieri – come ad esempio le onde d’urto, ovvero onde acustiche ad alta intensità che si trasmettono attraverso la pelle nell’area interessata dove diminuiscono il dolore e accelerano la guarigione. Il problema, dunque, non è la mancanza di trattamenti, ma la reticenza degli uomini a chiedere aiuto al medico. Molto spesso la diagnosi arriva in ritardo, causando agli uomini più sofferenza, anche psicologica, che può essere invece evitata”. Un discorso simile vale anche per la disfunzione erettile, che interessa oltre 3 milioni di uomini in Italia e l’eiaculazione precoce. “A scoraggiare gli uomini è ammettere il dolore psichico causato da questi problemi – evidenzia Palmieri -. Il paziente prova imbarazzo anche a parlarne con lo stesso specialista. Si isola nella sua sofferenza e fa gran fatica a chiedere aiuto. Moltissimi pazienti sono giovani – spiega il presidente SIA – ma arrivano a consultare uno specialista solo dopo aver superato i 30 anni. E’ fondamentale una diagnosi tempestiva e precisa per aiutare il paziente nella ricerca della terapia più appropriata”.

Fonte: askanews.it

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Studio all'Irccs Candiolo

La genomica da sola non basta più. La nuova frontiera della ricerca sul cancro passa per altre “scienze”, come ad esempio la proteomica, la metabolomica e la radiomica. L’obiettivo è ambizioso: individuare i tumori prima che siano visibili in una TAC o in una PET. A guidare in questo viaggio verso le nuove sfide nella lotta al cancro è Vanesa Gregorc, direttrice dell’Oncologia Medica dell’IRCSS Candiolo.

“Negli ultimi anni ci siamo resi conto che la sfida contro il cancro non si può giocare solo studiando il tumore, in qualunque forma esso appare, – spiega – ma anche analizzando le caratteristiche dei pazienti, del microambiente in cui crescono e delle cellule tumorali e il rapporto che esse instaurano con il sistema immunitario”. Si tratta di un cambio di paradigma che, man mano che la tecnologia si è evoluta, ha aperto nuove linee di ricerca, impensabili fino a quale anno fa. Oggi le linee di ricerca seguite dai 400 ricercatori dell’IRCCS Candiolo sono molte e diverse, tra le più avanguardia a livello internazionale. “Con progetto Proactive, ad esempio, abbiamo l’obiettivo di migliorare e personalizzare – riferisce Gregorc – la prevenzione terziaria dei tumori, quella che ci consente di individuare la malattia prima che si manifesti e prenda il sopravvento sul paziente. Grazie alla ricerca sul Dna tumorale circolante, delle singole cellule tumorali, più precisamente delle primissime tracce che il cancro rilascia nel nostro sangue, stiamo lavorando allo sviluppo di nuove metodiche che ci consentano di prevedere lo sviluppo di un tumore diverso tempo prima che diventi radiologicamente visibile. Vogliamo scovare la malattia quando ancora si trova in uno stato cellulare, in modo da curarla prima che diventi una massa vera e propria”. “Diagnosi precocissima, quindi, a cui si può arrivare – sottolinea l’esperta – soltanto con l’aiuto di molte scienze: la genomica, cioè lo studio del genoma del tumore; la proteomica, cioè lo studio della struttura e della funzione delle proteine; la metabolomica, ovvero lo studio delle impronte chimiche lasciate da processi cellulari; e la radiomica, cioè l’analisi matematica di immagini mediche. In questo modo i pazienti possono essere messi nelle condizioni di dare battaglia al cancro nella sua fase più vulnerabile, quando ancora non ha messo radici e sfoderato tutto il suo potenziale invasivo. Significa anche intercettare in alcune persone, come ad esempio i famigliari dei nostri pazienti, il rischio di sviluppare tumori ereditari, modificando quindi il loro destino”. Con una sorta di “palla di vetro” la stessa prevenzione primaria assume una nuova e diversa importanza. Conoscere il proprio profilo di rischio o sapere con grande anticipo che un tumore sta iniziando a gettare le basi per un futuro attacco – sottolinea Gregorc – può aiutare le persone a mettere in atto una serie di misure comportamentali che possono impedire o anche solo rallentare l’insorgenza della malattia”.

Inoltre, diagnosi precocissima significa che, anche in caso di malattia conclamata, le chance di riuscire a sconfiggerla sono più numerose. “Le armi che attualmente abbiamo a disposizione, dalla tradizionale chirurgia ai più innovativi trattamenti, tra cui l’immunoterapia e i farmaci biologici, sono più efficaci quando ancora il tumore si trova in una fase precoce di sviluppo”, evidenzia Gregorc. “Ricerca e cura, quindi, viaggiano insieme ed è proprio questa la filosofia che da sempre accompagna il lavoro che noi tutti svolgiamo al Candiolo”, conclude l’esperta.

Fonte: askanews.it

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Studio misura effetti economici

In Italia, ictus e infarto hanno effetti a lungo termine sulla possibilità di proseguire la propria storia lavorativa e mantenere il proprio reddito. Un gruppo di ricercatori dell’Università Ca’ Foscari Venezia, Università di Torino, Università di Amsterdam e Dipartimento di Epidemiologia dell’Asl 3 di Torino hanno per la prima volta misurato questi effetti economici nel contesto italiano, riscontrando una riduzione della probabilità di lavorare del 10%, a cui si associa una corrispondente perdita reddituale. Emerge anche come le norme a difesa del lavoro possano offrire una sorta di ‘salvagente’ a chi subisce un brusco peggioramento di salute, facilitando la prosecuzione della propria storia lavorativa. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica Labour Economics.

Cosa accade dopo un ictus o un infarto? Il lavoratore può veder aumentare il proprio “costo fisso” di lavorare e essere indotto a uscire dal mercato del lavoro. Alcuni potrebbero desiderare di continuare a lavorare, ma riducendo le ore lavorate. Infine, ci sono persone che potrebbero desiderare di continuare a lavorare mantenendo lo stesso impegno orario. Dal punto di vista del datore di lavoro, le reazioni potrebbero puntare a riduzioni di orario, mancate progressioni retributive, o persino la dismissione del lavoratore. Lo studio analizza proprio le conseguenze economiche di due imprevedibili e fulminei shock di salute. “Purtroppo gli effetti degli shock di salute sulla vita lavorativa sono permanenti – spiega Francesca Zantomio, professoressa di Economia all’Università Ca’ Foscari Venezia e coautrice dello studio – nel contesto italiano è molto difficile per chi esce dal mercato del lavoro riuscire a rientrarci in un momento successivo. Inoltre, non c’è margine di aggiustamento delle ore lavorate, margine che permetterebbe di rimanere attivi ad una parte di soggetti che invece, ad orario invariato, faticano a continuare l’impiego preesistente. Perché il part-time volontario è molto poco diffuso. Né osserviamo reazioni di transizione ad altre forme di lavoro, o altri datori di lavoro”.

A livello di reddito ci sono strumenti di protezione, come la pensione di inabilità. “Non troviamo evidenza che aumenti la probabilità di smettere di lavorare e al contempo di non ricevere alcun sussidio – spiega Irene Simonetti, ricercatrice di Economia all’Università di Amsterdam e coautrice dello studio- né troviamo evidenza che gli operai (più a rischio di perdere la propria capacità reddituale) usino in maniera opportunistica strumenti di welfare, quando dotati di capacità lavorativa residua”.

“Infine – spiega Michele Belloni, professore di Economia all’Università degli Studi di Torino e coautore dello studio – i nostri risultati evidenziano come la normativa di protezione del lavoro in vigore fino al 2012 sia riuscita a favorire l’inclusione lavorativa di chi ha subito un peggioramento di salute”.

Lo studio si basa sui dati amministrativi relativi a lavoratori italiani tra il 1990 e il 2012, a cui sono agganciati dati ospedalieri che permettono di osservare le loro eventuali ospedalizzazioni non programmate e dovute a infarto o ictus. Dal 2012 sono entrate in vigore riforme normative di alleggerimento della protezione lavorativa che, secondo i ricercatori, potrebbero aver contribuito ad esacerbare disuguaglianze reddituali e di benessere nella vita dei lavoratori italiani.

Fonte: askanews.it

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Coordinato dalla Sapienza e dall'IIT Neuroscience and Society

“Ho le farfalle nello stomaco” non è solo una metafora. Un nuovo studio interamente italiano pubblicato su iScience ha rilevato come la consapevolezza di avere un corpo e risiedere all’interno di esso, sia una sensazione fortemente correlata a parametri fisiologici del nostro corpo come temperatura, pressione arteriosa e acidità dello stomaco e dell’intestino. Lo studio è stato sviluppato nei laboratori del Dipartimento di Psicologia della Sapienza in collaborazione con il laboratorio Neuroscience and Society del centro dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma, CLN2S@Sapienza. La ricerca ha evidenziato che gli organi più profondi del nostro corpo, come quelli appartenenti al tratto gastro intestinale, sono gli unici in grado, attraverso segnali mandati ai nervi periferici, di captare sempre tutto ciò che ci circonda. “Il problema – afferma Salvatore Maria Aglioti, Professore alla Sapienza e Ricercatore Senior presso IIT – è che una cosa è studiare il ruolo dell’attività cardiaca o respiratoria nella consapevolezza corporea, come abbiamo fatto in precedenza, una cosa è studiare l’attività del tratto gastrointestinale. Stomaco e intestino sono organi profondi e contorti, che normalmente vengono indagati per mezzo di sonde molto invasive: chiunque abbia fatto una gastroscopia o una colonscopia lo sa per esperienza”. Per superare questo ostacolo, i ricercatori e le ricercatrici hanno esplorato il collegamento tra stomaco, intestino e percezione del proprio corpo per mezzo di una tecnologia altamente progredita e mai impiegata prima nel campo delle neuroscienze cognitive: le pillole furbe, dotate di un termometro, un manometro e un sensore di acidità miniaturizzati e ingerite come normali compresse. Attraverso questi dispositivi sono stati in grado di registrare a intervalli regolari, temperatura, pressione e acidità gastrointestinale. I dati una volta raccolti venivano trasmessi a una ricetrasmittente esterna, il tutto collegato senza fili. Per capire se veramente ci fosse una correlazione tra lo stato fisiologico dell’apparato gastrointestinale e la consapevolezza del proprio corpo, i partecipanti dovevano ingerire una di queste pillole intelligenti e mediante un visore 3D osservare un corpo virtuale. Questo avatar poteva presentarsi in due situazioni differenti: la prima in cui tale personaggio aveva un aspetto simile al paziente, si trovava nella sua stessa posizione e respirava come lui; la seconda situazione in cui il personaggio era differente dal partecipante. Alla fine di questa esperienza il paziente doveva descrivere quanto si sentiva “incorporato” al corpo virtuale appena mostrato. Tale procedura doveva essere ripetuta tre volte, a seconda della posizione della pillola furba: la prima in prossimità dello stomaco, la seconda dell’intestino tenue e l’ultima nell’intestino crasso.

Fonte: askanews.it

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Cure autoprescritte alimentano antibiotico resistenza. Rischio recidive

Fino al 40% delle donne italiane viene colpito almeno una volta nella vita da infezioni urinarie. E circa il 20% di loro racconta di aver avuto episodi che si sono ripetuti nel tempo. In quattro casi su cinque si tratta di cistite, un’infiammazione della vescica causata quasi sempre da batteri presenti nella flora intestinale che, per diversi motivi, possono arrivare a far danno nelle vie urinarie. La soluzione non sta, come troppo spesso si pensa, in cure antibiotiche fai-da-te perché rischiano di essere controproducenti, facendo aumentare la probabilità di sviluppare l’antibiotico-resistenza. È necessario rivolgersi all’esperto del settore, ovvero all’urologo: solo lui può indicare il percorso terapeutico più adatto a risolvere il problema, che spesso passa anche da piccoli interventi nello stile di vita. Delle ultime strategie per affrontare le infezioni urinarie hanno discusso in questi giorni gli esperti nazionali e internazionali al 95° Congresso nazionale della Società Italiana di Urologia (SIU), che si conclude oggi a Riccione. Quattro giorni con decine di simposi e sessioni, talk show e corsi di aggiornamento cui hanno partecipato quasi 2000 urologi provenienti da tutta Italia.

“I campanelli d’allarme con cui si presenta la cistite di solito sono sempre gli stessi: uno stimolo urgente e spesso doloroso a urinare, un forte bruciore durante la minzione, la sensazione di non riuscire mai a svuotare completamente la vescica. Le urine possono apparire torbide e maleodoranti, talvolta con tracce di sangue. Soprattutto si avverte un senso di pesantezza e fastidio nella parte bassa dell’addome – spiega Andrea Salonia, professore di Urologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e responsabile dell’Ufficio Educazionale della SIU.

Perché la cistite è una malattia soprattutto femminile? “Il primo motivo è di carattere anatomico: infatti, nelle donne l’uretra, cioè il canale che porta alla vescica, è più corta rispetto agli uomini e più facilmente transitabile da parte degli agenti microbici – continua il prof. Salonia -. La anatomia femminile nella zona genitale rende peraltro le vie urinarie e l’ultimo tratto dell’intestino molto vicini tra loro, e certamente più che negli uomini, rendendo più facile il compito ai batteri, che possono arrivare con facilità alla vescica. I fattori scatenanti sono vari. Per esempio i rapporti sessuali penetrativi, a seguito dei quali i batteri possono risalire lungo le vie urinarie. Oppure la stipsi e la sindrome del colon irritabile. In questi casi gli stessi batteri si moltiplicano e possono diffondersi dal distretto intestinale a quello delle vie urinarie. O ancora la menopausa, perché la carenza di estrogeni altera il pH della mucosa vaginale e favorisce le infezioni. Infine, un’igiene intima scorretta: oggi c’è una tendenza a esagerare con saponi troppo aggressivi, che indeboliscono le difese e rendono più probabili le infezioni vaginali”.

Le strategie per risolvere il problema passano anzitutto da un intervento sugli stili di vita. Una regola d’oro in caso di cistite episodica, che però vale anche come forma di prevenzione, è quella di bere tanto: “Almeno 8 bicchieri di acqua al giorno, per depurare l’organismo ed evitare l’accumulo di tossine e batteri responsabili dell’infiammazione. Per le stesse ragioni è molto importante cercare di non trattenersi, ma assecondare subito lo stimolo a urinare, perché il ristagno di urina nella vescica facilita la proliferazione di batteri. Urinare prima e dopo il rapporto sessuale. Usare detergenti intimi a pH neutro e non aggressivi. Per controllare la stipsi, potenziale alleata della cistite, può essere utile mangiare un paio di kiwi al giorno: regolano l’intestino e sono ricchi di vitamina C, che riduce la basicità dell’urina”.

Per quanto riguarda il grande capitolo delle terapie farmacologiche, gli esperti mettono in guardia contro un uso spregiudicato degli antibiotici: “Ricorrere a questi farmaci senza sentire prima l’urologo è rischioso, perché non fa altro che favorire l’antibiotico resistenza, cioè quel fenomeno per cui i batteri sviluppano una capacità di sopravvivere all’azione di uno o più farmaci di questo tipo. Ed espone al rischio di avere cistiti sempre più frequenti e molto spesso delle fastidiose candidosi vaginali- precisa il professore -. Per questo, qualora l’urinocoltura, cioè l’esame delle urine che identifica i batteri responsabili dell’infezione in corso, rivelasse una carica batterica bassa, sarebbe più opportuno intervenire assumendo probiotici, che contribuiscono a rendere più acide la superficie delle mucose genitali, inibendo l’azione dei batteri patogeni. Se invece la carica batterica fosse elevata, sarà l’urologo, sulla base dei risultati dell’urinocoltura e delle caratteristiche della paziente, a stabilire un’eventuale terapia antibiotica specifica”.

Fonte: askanews.it

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Per diagnosi precoce e recuperare ritardi causati dalla pandemia

Il mese internazionale della prevenzione dei tumori del seno assume quest’anno un significato ancora più importante per i gravi ‘danni collaterali’ che la pandemia da Covid-19 ha causato in campo oncologico: ritardi negli interventi chirurgici, nelle prestazioni terapeutiche salvavita e blocco completo per sei mesi dei programmi di screening con 1 milione di esami mammografici in meno e oltre 3.500 donne che hanno scoperto di avere un tumore del seno in fase più avanzata.

Per aiutare a recuperare il tempo perduto negli ultimi due anni la Komen Italia ha intensificato le attività della ‘Carovana della Prevenzione’: utilizzando le sue 4 unità mobili ad alta tecnologia e lavorando fianco a fianco con la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e altri partner clinici, ha offerto la possibilità di effettuare gratuitamente ‘a domicilio’ gli esami di diagnosi precoce dei tumori del seno ad oltre 30.000 donne, in modo particolare a coloro che vivono condizioni di maggiore fragilità sociale ed economica.

‘Il Policlinico Gemelli partecipa con grande impegno a questo articolato progetto di prevenzione dedicato alla popolazione femminile – spiega il professor Marco Elefanti, Direttore generale del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS – ed è ancora una volta insieme a Komen Italia con cui condivide l’attenzione per la tutela della salute delle donne. Al Gemelli, infatti, trovano accoglienza e cure un numero elevato di donne malate di tumore intercettate durante il percorso di prevenzione della Carovana. Grazie a questo progetto il Gemelli si apre al territorio delle regioni italiane con la presenza delle nostre equipe mediche vicine alla popolazione femminile, in particolare alle donne più fragili e disagiate, dando risposte ai loro bisogni di salute’.

Per favorire il rafforzamento di questo impegno nella diagnosi precoce, il Ministero della Cultura ha scelto di affiancare nuovamente la Komen Italia nella campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi ‘La Prevenzione è il nostro Capolavoro’: durante il mese di ottobre, a tutti coloro che sceglieranno di sostenere le attività della Carovana con una donazione sul sito www.prevenzione.komen.it, il MIC offrirà l’accesso gratuito a molti musei statali (in allegato la lista). Il simbolo di questa nuova campagna è il Ritratto di Giovinetta di Andrea Della Robbia custodito al Museo del Bargello di Firenze che è inoltre visitabile gratuitamente da chi partecipa con la donazione.

Per rimarcare il valore di questa collaborazione istituzionale, la Komen Italia ha scelto di dare avvio anticipato al Mese della Prevenzione, organizzando il 28 settembre a Roma, a Piazza Venezia, una speciale giornata di screening mammografici dedicata alle dipendenti del MIC.

‘E’ un grandissimo piacere anche quest’anno – ha detto Massimo Osanna, Direttore Generale Musei del Ministero della Cultura: – poter collaborare con Komen Italia per un progetto straordinario che unisce la bellezza e la prevenzione oncologica. L’impegno del Ministero della Cultura è massimo. Questa iniziativa testimonia il significato profondo dell’arte come cura e della visita al museo come esperienza inclusiva capace di trasmettere benessere culturale e fisico’.

Per Marina Giuseppone, direttore generale Organizzazione Ministero della Cultura, ‘il Ministero della Cultura crede molto in questo progetto di prevenzione e ha scelto di sostenere Komen Italia nella sfida di sensibilizzazione e raccolta fondi per supportare la Carovana della Prevenzione e convincere quante più persone ad effettuare gli screening oncologici. Coniugare la cultura e la bellezza dei musei italiani con la salute e la prevenzione oncologica è una sfida nella quale il Ministero è in prima fila da sempre. Quest’anno, oltre alla possibilità di visitare gratuitamente i musei italiani, abbiamo voluto organizzare, per il 28 settembre, a Piazza Venezia, una speciale giornata di screening mammografici dedicata alle dipendenti del MiC, dando così l’avvio con anticipo al mese della prevenzione di Komen Italia’.

Per dar vita dal mese di ottobre ad una nuova serie di iniziative che aiutino concretamente a proteggere la salute femminile, la Komen Italia ha invitato i suoi partner a unire le forze in un impegno straordinario.

‘La pandemia ha creato grandi danni anche in campo oncologico – ha dichiarato il prof. Riccardo Masetti, presidente della Komen Italia e direttore del Centro di Senologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – e solo attraverso una grande unione di forze sarà possibile recuperare in fretta il terreno perduto. E’ per questo che la Komen Italia ha invitato i suoi partner principali ad impegnarsi insieme durante il Mese della Prevenzione a sostegno di nuovi progetti di tutela della salute femminile’.

Così, grazie ai partner Procter&Gamble e Fondo FASDA- Unisalute, dal mese di ottobre Komen Italia potrà organizzare 20 giornate aggiuntive di prevenzione nelle regioni del Sud Italia (dove i programmi di diagnosi precoce sono da sempre più fragili) e attivare quattro contratti di collaborazione professionale per rafforzare il personale medico e sanitario della Carovana. In prima linea per il progetto Carovana della Prevenzione anche Autostrade per l’Italia, Boots e il Tour Rosa di McArthurGlen Group, appena conclusosi negli outlet italiani e che sarà confermato anche nel 2023.

Sempre ad ottobre, la Komen Italia avvierà anche iniziative di prevenzione primaria per rimarcare l’importanza della sana alimentazione e dell’attività fisica come strumenti di protezione della salute. In occasione del Villaggio Coldiretti, in programma a Milano al Castello Sforzesco dal 30 settembre al 2 ottobre, i nutrizionisti del Centro Komen Italia di Terapie Integrate in Oncologia svolgeranno seminari e consulenze specialistiche nello spazio di Campagna Amica e Terranostra per incoraggiare l’utilizzo dei prodotti di stagione.

Inoltre, l’8 ottobre al Circolo Olgiata si svolgerà un’altra tappa del progetto Golf for the Cure, organizzato con la Federazione Italiana Golf per evidenziare l’importanza dell’attività fisica e sportiva nell’azione di contrasto ai tumori del seno.

Oltre ad impegnarsi in queste attività di promozione della prevenzione, la Komen Italia darà avvio ad altre iniziative volte a tenere alta l’attenzione sul tema dei tumori del seno, rafforzare i percorsi di cura e raccogliere fondi.

Dal 30 settembre al 2 ottobre si svolgerà la terza edizione della Race for the Cure di Matera e dal 7 al 9 ottobre la settima edizione della Race for the Cure di Brescia con i relativi Villaggi della Salute, organizzati grazie alla storica partnership con la Fondazione J&J.

Il 20 ottobre, in una grande giornata di sensibilizzazione all’Isola Tiberina a Roma, sarà presentato un nuovo progetto di collaborazione tra due delle più importanti Breast Unit della Regione Lazio (quella del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e quella del Fatebenefratelli Isola Tiberina) e le loro rispettive associazioni pazienti (la Komen Italia e Beatrice Onlus). Questa innovativa unione di forze consentirà di migliorare ulteriormente i percorsi terapeutici delle oltre 1500 donne con tumore del seno che ogni anno affidano le proprie cure a queste due strutture di eccellenza.

Durante il Mese della Prevenzione prenderà il via il ‘Progetto Sicilia’ della Komen Italia che consentirà tra l’altro di espandere ulteriormente le attività della Carovana della Prevenzione. Grazie all’allestimento di una prima ‘Unità Mobile Territoriale’ della Carovana, che opererà continuativamente in Sicilia in piena sinergia con le Istituzioni sanitarie dell’isola, sarà possibile offrire esami di diagnosi precoce dei tumori del seno alle donne residenti in comuni geograficamente più isolati, dove la prevenzione arriva con più difficoltà. Il progetto prevede anche iniziative di sensibilizzazione e raccolta fondi, tra cui l’organizzazione di una Race for the Cure a Palermo.

Sempre nel mese di ottobre altri partner, tra cui SMEG, Vidermina, SLAMP, LPG, ed HP, uniranno le forze a sostegno dei progetti di Komen Italia dando vita a progetti di marketing sociale o sviluppando prodotti ‘in rosa’ limited edition dedicati alla raccolta fondi e sensibilizzando i propri clienti online e presso gli store.

Con il patrocinio di Komen Italia e della Fondazione Lucè Onlus che con Komen Italia ha già realizzato un punto d’ascolto al Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, in occasione della conferenza stampa, sono state presentate in esclusiva le prime immagini del cortometraggio di Benedicta Boccoli: ‘Come un Fiore’, prodotto da Andromeda Film ed Helios Film. Un cortometraggio artistico che affronta il delicato tema del tumore del seno, dell’accettazione del proprio corpo e della rinascita. Un racconto intimo e personale vissuto dalla stessa regista. Un inno alla vita. Un racconto dalle sfumature oniriche, i ricordi d’infanzia, un’isola felice e… un fiore.

Il Programma X Factor (Sky) aderirà alla campagna con un appello di Ambra Angiolini durante la puntata Bootcamp. Il messaggio di prevenzione sarà inoltre rilanciato dai conduttori di SkyTG 24 che diventeranno per un giorno Ambasciatori della Prevenzione. L’appello sarà sostenuto anche da tanti volti noti dello spettacolo, dello sport e della televisione che indosseranno l’iconico Ribbon Rosa di Komen Italia e anche dal mondo del web attraverso i post e le stories degli influencer.

Fonte: askanews.it

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Indagine nazionale DOXA sulla salute mentale per il Festival RO.MENS

Diffusa sofferenza psichica in particolare tra i giovani, pericolosità delle persone con disturbi mentali che comunque si possono curare e non sono da escludere dalla società, vergogna a parlare dei propri disturbi ma non di andare dallo psicologo, contrasto tra i sessi sul chi è più incline a sviluppare disturbi mentali. È quanto emerge dall’anticipazione dei risultati della ricerca nazionale sulla salute mentale realizzata dalla BVA DOXA per il Festival della Salute Mentale RO.MENS per l’inclusione sociale e il pregiudizio, organizzato dal Dipartimento di Salute Mentale (DSM) dell’ASL Roma 2, con il patrocinio di Roma Capitale e della RAI, che si terrà la prossima settimana dal 26 settembre al 2 ottobre con il programma pubblicato sul portale salutementale.net. La ricerca completa sarà presentata al Campidoglio martedì 27 settembre mattina

Secondo la ricerca, “l’80% della popolazione afferma di aver avuto modo di relazionarsi con persone che hanno disturbi mentali, più o meno gravi. Si tratta di una diffusa percezione di conoscere persone che hanno disturbi mentali, indicativa di una impressione di una società pervasa da una significativa presenza di sofferenza psichica. Oltre la metà della popolazione (65%) ritiene le persone con disturbi mentali pericolose per sé, quasi la metà (48%) pericolose anche per gli altri, con la possibilità di diventare facilmente aggressive e violente (55%), non rispettose delle regole sociali condivise (49%), non in grado di lavorare con un buon livello di autonomia (46%). Un quadro negativo non suffragato da evidenze scientifiche statistiche, che rappresenta un ostacolo verso i percorsi terapeutico-riabilitativi e di inclusione sociale, dalla ricerca di abitazioni e di lavoro ai rapporti emotivi e relazionali”.

“La grande maggioranza degli italiani (70%) – sottolinea tuttavia l’indagine – ritiene le persone con disturbi mentali intelligenti e con le stesse aspirazioni, desideri, obbiettivi di chiunque altro (74%). La stragrande maggioranza degli italiani (81%) ritiene che le persone con disturbi mentali non dovrebbero essere isolate dagli altri, in gran parte (73%) che non vivrebbero meglio in luoghi di cura isolati e che possono stare insieme alla collettività (79%). Sono dati complessivamente positivi che vedono la maggioranza della popolazione non ritenere le persone con disturbi mentali come alieni da escludere dalla società”.

Dai dati emerge una netta difficoltà della popolazione a condividere con gli altri un eventuale disturbo mentale:”Il 78% preferirebbe parlarne solo in famiglia, non con amici e conoscenti. Il 22% si vergognerebbe a parlarne e preferirebbe non parlarne con nessuno. Da questi dati appare evidente la sussistenza dello stigma verso chi soffre di una malattia mentale con il timore di essere etichettati”.

Andare dallo psicologo non è qualcosa da tenere nascosto per circa i tre quarti della popolazione (76%). E due terzi (66%) ritengono che la malattia mentale possa essere curata (il 34% risponde di no).

Gli uomini pensano che siano gli uomini ad essere più inclini ad avere disturbi mentali invece le donne pensano che siano le donne ad essere più inclini ad avere disturbi mentali. Un dato contrastante che può nascere dalla convinzione per entrambi di svolgere una vita più stressante rispetto all’altro sesso con conseguente aumento della probabilità di soffrire di disturbi mentali.

La popolazione dai 18 ai 44 anni e con un livello d’istruzione più alto sembra riconoscere il maggior disagio mentale che può ricadere sulle donne. Un riconoscimento minore invece da parte della popolazione tra i 45 ed i 65 anni e con un livello d’istruzione medio e basso.

Al di là del genere è invece evidente che sono i giovani tra i 14 e i 24 anni (38%) ad essere più inclini allo sviluppo dei disturbi mentali, come confermato dall’aumento della loro presenza tra gli adolescenti, in particolare a seguito della pandemia.

Fonte: askanews.it

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